Respira, è solo un documentario Netflix!

Ultimamente, forse in ritardo rispetto ai più, ho recuperato alcuni documentari che non avevo ancora guardato, proprio su Netflix, piattaforma che, accostata ad altre, di base utilizzo molto. Premetto che, dati alla mano, secondo JustWatch (se non lo conoscete è il motore di ricerca di streaming legali sul web) nel terzo trimestre 2020 Netflix era il leader con il 32% dell’intera quota di mercato, seguito da Prime Video (27%) e Disney Plus (12%). Questo pone una premessa con la quale vorrei venisse letto il seguente articolo: Netflix è al momento la piattaforma maggiormente utilizzata e per questo in grado di informare e influenzare la maggior parte del suo pubblico con i suoi contenuti.

Tra le proposte più gettonate:

  1. Seaspiracy: Esiste la pesca sostenibile?
  2. The social dilemma
  3. Rotten

Quello che hanno in comune è il loro essere documentari investigativi su alcune delle problematiche considerate molto “calde” oggigiorno.

Partiamo da Seaspiracy, diretto dal britannico Ali Tabrizi, un regista potremmo dire attivista che è già stato dietro la telecamera in documentari come Vegan, del 2018. Il documentario, come si può evincere già dalla copertina e dal titolo, affronta il tema della pesca in mare, facendosi guidare dalla domanda che appare anche come sottotitolo “Esiste la pesca sostenibile?”.

Leggendo un po’ di pensieri condivisi da vari giornalisti sul web ho potuto trovare degli articoli interessanti che sviscerano in primis l’argomento trattato e la veridicità delle fonti citate (QUI) e in secondo luogo la modalità narrativa con la quale il documentario è stato girato, proprio in termini di conduzione della narrazione e intenzioni nei confronti dello spettatore (QUI). Ed è proprio in questo spiraglio che vorrei inserire una considerazione, sulla base della visione che ho avuto e dei pensieri che sono seguiti poco dopo. Guardare Seaspiracy crea nello spettatore una violenta botta di adrenalina perché le immagini che vengono mostrate risultano di forte impatto. Per 90 minuti circa, infatti, a livello visivo lo spettatore viene letteralmente investito da dati e grafici, accostati ad un viaggio dell’eroe (in questo caso quello del protagonista-regista), che concorrono a sviluppare una polarizzazione bene-male, buoni-cattivi veramente estrema.

Lo spettatore, traghettato, subisce perciò dapprima una pressione di informazioni, che di sicuro non può immediatamente né verificare né assimilare, decidendo poi, solo per un momento, di credere alla narrazione servitagli e di sposare la causa presentatagli come dato di fatto. Con questo non affermerei che ciò che il documentario rappresenta, le intenzioni e la realtà nei mari, non siano criticità reali ma mettendomi al fianco dello spettatore, dal più disinformato al più ferrato sulla materia, qualcosa stride. Continuerò questo discorso più avanti, intanto procedo con le altre due serie.

2. The social dilemma di Jeff Orlowski affronta alcuni dei problemi più significativi provocati dall’utilizzo dei social network e dei motori di ricerca: la quantità di tempo che spesso si viene invogliati a trascorrere online e, in particolare, gli effetti collaterali che alcune scelte delle aziende Siliconvalliane hanno riportato principalmente sulla fascia più giovane della popolazione mondiale. Chi parla nel documentario è stato parte del sistema, ci ha lavorato ai piani alti o ai piani operativi e non ne condanna il senso generale. Vengono, anzi, illustrate con un carattere abbastanza informativo alcune modalità di funzionamento di cui siamo tutti a conoscenza ormai da alcuni anni. Nessuna notizia “bomba” quindi, ma un tentativo di guardare la questione da punti di vista interni e laterali e soprattutto con un accenno finale al sogno di qualcosa di diverso, di social più etici, di sistemi che abbiano a cuore la salvaguardia psicologica e vitale degli utenti. Anche in questo caso si viene colpiti dalla narrazione ma ci si sente sicuramente meno in pugno al regista, meno bambini dietro al pifferaio magico.

3. Rotten è una docu-serie che si sviluppa in sei episodi per due stagioni, ciascuno votato ad un alimento e alle controversie legate alla sua produzione e distribuzione. Con un taglio anche storico rispetto alle cause politiche e sociali che hanno portato alla situazione attuale, le puntate raccontano le vicende degli alimenti, assumendo spesso il punto di vista di piccoli e medi produttori. I settori analizzati, non globalmente ma rispetto a determinati casi studio e territori, sono:

Stagione 1: Miele – Arachidi – Aglio – Pollo – Latte – Merluzzo

Stagione 2: Avocado – Vino – Acqua – Zucchero – Cioccolato – Alimenti psichedelici

É apprezzabile senza dubbio la lunghezza della serie e il fatto di aver dedicato tra i 50 e i 60 minuti ad un solo argomento. In particolare, anche se lungo le due stagioni spesso il male più grande sia comunque identificabile nelle grandi aziende, nei prezzi che devono spesso sottostare al dominio dei grandi supermercati e alle pratiche fraudolente di sistemi globali non del tutto trasparenti, ciò che appare evidente in molte puntate è la fatica dei produttori a rimanere sul mercato e a sopravvivere in un mondo alimentare sempre più globalizzato. Oggi la richiesta di un determinato alimento può riguardare l’intera popolazione mondiale e questo provoca la pratica delle coltivazioni intensive, la creazione di guerre e cartelli e altre numerose conseguenze. Le puntate mostrano come spesso, prodotti da sempre caratteristici di una data regione debbano oggi competere nei supermercati con quelli di regioni dall’altra parte del mondo. Tutto questo crea crisi, difficoltà, veri e propri scontri e spesso insoddisfazioni verso i rispettivi governi.

La considerazione generale su questo sistema di informazione padroneggiato e promosso da una piattaforma come Netflix non punta i piedi solo sul fatto che le nostre possibilità di scelta siano estremamente canalizzate all’interno dell’offerta che, scientemente ogni mese pagando la tariffa da abbonati, abbiamo deciso di abbracciare. Quante volte vi sarà capitato a cena di ritrovarvi a citare documentari, film e serie che praticamente tutti intorno a voi avevano visto sentendosi all’improvviso inseriti dentro ad una bolla informativa quasi paurosa? A me molte. Detto questo e non demonizzando niente e nessuno, quello che mi preme è rassicurare lo spettatore che dopo ciascuno di questi o di altri documentari simili, dalle vesti militanti, si sia sentito contemporaneamente: esaltato (dalla falsa sensazione di avere finalmente in mano informazioni preziose per discernere il mondo), impotente (di fronte all’imminente disastro profetizzato), deciso all’azione (prendere in mano la propria vita, fare scelte attive e drastiche, perché è solo questo che vieni spinto a fare) e infine scoraggiato, perché come il docu-film che hai appena visto ce ne sono altri cento che non hai guardato e altri milioni di problemi che saresti chiamato a risolvere, se non fosse che non sei abbastanza informato in merito.

Dato che questo è avvenuto anche a me, nel finire di guardare questi contributi, porto una riflessione sedimentata in queste settimane post-visione. Ciò che questi documentari fanno e a cui Netflix forse crede di poter muovere è una falsa consapevolezza di come funzionino davvero certi meccanismi, illudendo lo spettatore di poter prendere decisioni esattamente nel momento in cui finiranno quei 60-90 minuti di puro delirio informativo e ignorando completamente che le scelte e i cambiamenti fanno parte di processi, non per forza volti in direzioni poco precise, ma di sicuro più diluiti nel tempo. Una persona potrebbe impiegare settimane, mesi e addirittura anni ad analizzare un problema, ponendosi differenti domande, confrontandosi con chi gli è vicino, testando su di sé (in base a stile di vita, scelte valoriali, condizione economica, condizione culturale e tutte le altre infinite piccole sfumature che definiscono ciascuno) se e come quel cambiamento può essere sposato a livello profondo nella sua vita. Quello che invece spesso la divulgazione sembra voler attivare è un cambiamento momentaneo, che fa sentire pronti, attivi e responsabili in quel lasso di tempo, (e magari perché no, disposti a spendere) fino a quando non si guarderà il prossimo documentario pronto a richiamarci alle armi altrove.

Il processo di attivazione di un cambiamento nei consumi, di scelta profonda, di analisi dell’ambiente intorno a noi (banalmente testare 15 tipi di yogurt prima di scoprire da etichette, sapore, imballaggio, provenienza… quale si sposi meglio al nostro stile di vita, al nostro bisogno nutrizionale e al nostro credo) è lungo, talvolta altalenante, talvolta fallimentare. Molto spesso non sono i cambiamenti drastici a problemi complessi ad essere risolutivi, bensì cambiamenti trasversali, graduali e innovativi.

Ci sono delle linee guida forti che indirizzano le nostre azioni e per cambiarle a fondo non si può lavorare solo sulla superficie, non si potrà risolvere il problema dei mari non mangiando più pesce nè quello dei social cancellando le app, nè quello degli avocado smettendo di comprarli. Come sempre e come dicevano già i latini, in particolare Orazio, Est modus in rebus e cioè esiste una misura nelle cose, un metodo per affrontarle e farle proprie con soluzioni misurate ma efficaci.

Personalmente, ho provato a muovermi facendo qualche ricerca: dopo Seaspiracy ho cercato e trovato un sito che spedisce prodotti freschi pescati in Francia assicurandone la pesca da parte di piccoli pescatori con piccole imbarcazioni. Dopo Rotten, ho trovato una collaborazione stipulata tra il GAS (Gruppo Acquisto Solidale) francese e un’associazione siciliana per la produzione etica di avocado in Sicilia. Dopo The social dilemma ho iniziato a leggere La salvezza del bello di Byung-Chul Han, che riflette molto su come la nostra concezione della bellezza sia cambiata, dall’utilizzo dei social, dei supporti tecnologici fino alle opere d’arte contemporanee; consiglio anche la lettura di La società della performance edito da Tlon.

Nell’attesa che ai livelli alti le decisioni incisive vengano prese davvero, il rischio è che tutto ricada sul singolo, che purtroppo deve fare scelte molto più costose per potersi assicurare un vantaggio etico. Qualche anno fa uscì un articolo su Internazionale che titolava la copertina e si chiamava “Il mito del consumatore verde”, ritrovate l’intero articolo (QUI). Il tema era proprio il falso mito per cui il consumatore viene indotto ad agire per risolvere problemi molto grandi con le sue azioni, spostando l’attenzione dalle responsabilità delle aziende realmente impattanti e dalle politiche dei governi. Cito l’articolo, “per un cambiamento strutturale serve l’intervento politico”, mentre l’idea più diffusa oggi è che valga più il tuo carrello della tua scheda elettorale.

In conclusione, la visione di questi documentari è stata molto utile ma sono certa che, dopo il primo momento di attivazione-sconforto, essa abbia avuto senso solo se inserita all’interno di una ricerca personale, arricchita da letture, film e qualunque altro stimolo, unita ad un attento e sempre attivo confronto con la realtà, che si trasforma poi nelle mie azioni quotidiane di tutti i giorni, misurate sulla base delle possibilità che offre la mia città, il mio stato, il mio portafogli ecc… Dopo di che, il mio pensiero più grande è andato alla politica e a come attivamente il mio voto possa far sì che i governi si occupino di queste problematiche agendo concretamente sulle aziende che detengono veramente il potere di cambiare il futuro e legiferando in maniera seria e responsabile.

L’invito a me stessa è di non semplificare, ovviamente, ma di aggiungere, abbracciare quella domanda in maniera complessa e sul lungo termine. Questo soprattutto per evitare una vita di colpi al cuore, risposta alle armi di qualunque battaglia, in favore invece di una quotidianità fatta di scelte ponderate, valutate e poi abbracciate con la consapevolezza che ognuno di noi si crea e si realizza attraverso il proprio ragionamento critico e attraverso, ancora una volta, la partecipazione.

Andai nei boschi

Quest’estate ho scelto di trascorrere due mesi in montagna, completamente circondata dalla natura, ed è stata insieme un’esperienza spettacolare e difficile. Di base l’idea di ritirarsi in un luogo appartato lontano da tutto e da tutti si cuce perfettamente su di me, la casa dove sono cresciuta si trova su una collina, ma questa volta ho voluto tentare di più. Vivere in montagna ha lati di fascino, come il verde che si affaccia alla tua finestra ogni mattina, il silenzio e la solitudine, e lati più difficili come la distanza dalla città, la mancanza di luoghi di ritrovo, i grandi spazi aperti ma le poche persone con cui condividerli, a volte la noia. In questo clima di ritiro ho scelto, un po’ per caso e un po’ no, di interessarmi a un filone di film che mi affascinava: quelli che trattano storie vere di sopravvivenza dell’uomo a contatto con la natura. La natura come l’ho vissuta io è sempre stata un’esperienza controllata, anche nelle situazioni più critiche. Anni di scoutismo mi hanno insegnato a trovare soluzioni e a organizzarmi in luoghi selvaggi per massimo 15 giorni, ma sempre con una sicurezza alla base che non mi ha mai fatta trovare in situazioni di estremo bisogno o emergenza.

Tra i vari film che ho visto ne segnalo quattro, non tanto per la resa cinematografica quanto invece per la veridicità dei fatti come primo elemento e per la ricchezza di spunti e riflessioni che mi hanno mosso. Eccoli di seguito:

  • (1) Jungle di Greg McLean, 2017
  • (2) 127 ore di Danny Boyle (regista di Trainspotting),
  • (3) Alive di Frank Marshall (producer tra gli altri di Back to the Future e The Colour Purple), 1993
  • (4) Everest di Baltasar Kormákur, 2015

In senso generale penso che ognuno di questi film sia accomunato dalla sfida, ricercata o subita, che l’uomo attiva con la natura nel momento in cui vi si trova immerso. Il desiderio di scoperta e la volontà di dominare l’elemento naturale da sempre lo spingono ad avvicinarsi a territori inesplorati e così la sua capacità di adattamento, unita al forte spirito di sopravvivenza, fa scaturire, nei grandi momenti di crisi, energie e soluzioni impensate.

Ciascuno degli eroi che sono protagonisti di queste pellicole è mosso da domande, scelte e motivazioni differenti e non solo, all’interno degli stessi gruppi di persone, le identiche situazioni non sono affrontate in egual modo e questo moltiplica i punti di vista e allarga la riflessione.

La prima pellicola (1) parla di tre ragazzi che, durante un viaggio attraverso l’America Latina, si inoltrano nella Foresta Amazzonica incantati dalla promessa di luoghi inesplorati e spinti dall’idea di una sfida romantica con la natura. Il protagonista, Yossi Ghinsberg, è pervaso da un ideale fantasioso del luogo selvaggio, forgiato dalla letteratura e alimentato dalla ricerca di risposte “lontano dalla società”; questo sentimento di attrazione verso un ignoto che crede di poter facilmente dominare e di più, da cui poter trarre un insegnamento è la motivazione che lo muove, la necessità dell’eroe. Un simile scenario si trova anche in un altro episodio cinematografico firmato da Sean Penn, “Into the wild”, visione completata dal libro di Jon Krakauer “Nelle terre estreme”, opere che rivelano l’avventura di Christopher McCandless nei territori sconfinati dell’Alaska. Anche Chris così come Yossi è spinto da una visione letteraria della natura, dato anche il livello di attrezzatura veramente povero con cui entrambi decidono di affrontarla. Per i due eroi la spinta romantica, e così la mancanza di preparazione, si impongono come spartiacque tra la vita e la morte. In questo modo la carenza di conoscenza del territorio e di un adeguato equipaggiamento spogliano l’ideale dalla sua patina edulcorata e fanno emergere la spietatezza della realtà.

Yossi Ghinsberg trascorre 21 giorni da solo nella natura.

Il protagonista della seconda storia (2) è Aron Ralston, un ragazzo che per hobby ama arrampicarsi nei canyon, correre e infilarsi in passaggi angusti e sentieri naturali scavati nella roccia. Aron non è spinto da un’idea romantica, per quanto si evince dalla storia, ma di sicuro ha una forte propensione verso il mettersi alla prova fisicamente e spingersi al limite. In una delle sue giornate di arrampicata e corsa nei canyon, inavvertitamente scivola su un masso di 300 kg che gli cade poi addosso incastrandogli il braccio. La pellicola ripercorre dettagliatamente tutte le fasi che si attivano nel corso di questa estrema emergenza nella mente del protagonista, di come il suo spirito di sopravvivenza tenda alla ricerca di differenti soluzioni per risolvere la prova che la natura gli ha imposto. Di questa storia vera si conservano ancora i filmati originali che il ragazzo ha girato durante le ore dentro al canyon con la sua cinepresa.

127 ore trascorse da Aron Ralston da solo nella natura.

Il terzo film (3) analizza un ulteriore spaccato di avventura tramite quello che è stato uno dei più celebri incidenti degli Anni Settanta. Un aereo, con a bordo una squadra di rugby ed alcuni parenti e amici, si schianta sulle Ande e i suoi passeggeri si ritrovano a far fronte all’enorme sfida della sopravvivenza. Muniti delle poche provviste rimaste (un sorso di vino versato in un tappo di deodorante, un assaggio di marmellata per pranzo e un quadratino di cioccolato per cena) si ritrovano completamente immersi nella neve avendo come unico rifugio la carcassa dell’aereo, tranciata a metà dopo la caduta. La circostanza è del tutto fortuita, in nessun modo ricercata ma comunque assolutamente provante in termini di sopravvivenza. L’ingegno umano si attiva immediatamente nell’istituire una divisione dei ruoli e nel riuscire a trarre soluzioni ideali con i soli strumenti in possesso. La lotta alla sopravvivenza pone anche di fronte a questioni di natura etica di non poco conto: una volta finite le scorte, i protagonisti si interrogheranno sul cibarsi o meno dei propri compagni già deceduti ma conservati dalla neve e dal ghiaccio.

Due mesi e mezzo trascorsi sulle Ande (13 ottobre – 23/24 dicembre).

L’ultimo film (4) di questa lista racconta una storia per niente casuale, che vede protagonisti persone esperte, assolutamente preparate e abituate a quello che la natura può riservare. La storia parla di una scalata sull’Everest, guidata da Rob Hall che da anni organizza esperienze commerciali per esperti ma non per forza professionisti. Quello che emerge in maniera forte da questo episodio è l’assoluta preparazione, la conoscenza del territorio, del percorso e delle circostanze da parte dell’uomo che ha alle spalle un’equipe solida e preparata, con un controllo attento di ogni possibile imprevisto. Nonostante questo, emerge l’idea di una rigida legge, quella naturale, che governa senza sconti. Gli orari, la preparazione, l’ossigeno di scorta, l’indugiare anche solo mezzora in più rappresentano le variabili che possono consentire all’uomo di dominare o di essere dominato. Nel gruppo di scalatori che saliranno quel giorno è presente anche Jon Krakauer che scriverà su questa avventura l’articolo “Aria sottile”, divenuto poi libro.

Rob Hall rimane 24 ore a pochi metri dalla cima dell’Everest.

Per concludere cito “Walden – Vita nei boschi” di Thoreau, libro che ho trovato davvero ricco di spunti per la maniera in cui ha sviscerato il tema del ritorno dell’uomo alla natura. Continuerò comunque ad essere alla ricerca di film o libri sull’argomento, di sicuro ci sono altri esempi nascosti da qualche parte ma per ora è tutto! Passo e chiudo!